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Smart working, l’esperta: «È una grande opportunità da continuare a utilizzare»

Alessia Dalla Riva
Smart working, l’esperta: «È una grande opportunità da continuare a utilizzare»

La prof. Bonomi: «Sta alle aziende capire quando concederlo»

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 La fine dello Smart Working come diritto non significa necessariamente rinunciare a un modo di lavorare utile ad azienda e lavoratore, tutt’altro. Ne è sicura – e rassicura in tal senso – Sabrina Bonomi, docente di organizzazione aziendale all’università e-Campus – professoressa associata laureata in Economia Aziendale presso l’Università Bocconi di Milano

«In realtà – esordisce – potrebbe non cambiare niente perché lo smart working c’era anche prima della pandemia. Le aziende più attente, più illuminate, più accorte avevano già una normativa sul lavoro agile e avevano già iniziato a utilizzare questa forma di lavoro. Se le aziende hanno capito che le persone, lavorando da casa, possono gestire meglio la loro famiglia e sono felici, più appassionate, lavorano meglio, hanno maggiore creatività, hanno tutto l’interesse a mantenerlo perché è previsto dalla normativa agile. Se invece le aziende decidono di non applicarlo, credo che sia un problema di fiducia. In Italia non abbiamo l’abitudine di ragionare per obiettivi con le persone, di fidarci se lavorano da casa. Inoltre abbiamo problemi di cyber security, di protezione dei dati. Bisogna dare gli strumenti, bisogna creare le condizioni perché le persone lavorino nella situazione migliori».

Obbligare le madri lavoratrici alla presenza sul posto di lavoro può avere un impatto sulle scelte e favorire gli uomini nell’ambito lavorativo?

«Credo che gli obblighi non siano mai ottimali perché ognuno deve potersi organizzare e scegliere. Questo è il senso dello smart working, cioè la libertà. Una donna con due bambini piccoli davvero lavora meglio da casa? Dobbiamo chiederlo a lei. Non tutti abbiamo una casa che ci consente gli spazi giusti, cioè ci sono anche delle persone che preferiscono andare in ufficio. Credo che lo smart working sia ottimale per tante persone però esistono anche tanti altri strumenti come per esempio l’orario flessibile. Questo tema va toccato in maniera più ampia, cioè lo smart working può essere di per sé un aiuto ma deve essere concordato con le persone indagando sulle reali esigenze del lavoratore per dare risposte adeguate. Credo che ci sia un divario da colmare perché a oggi noi lavoriamo con regole fatte da uomini, cioè da chi pensa al lavoro e soltanto al lavoro magari perché il carico nella cura dei familiari non è condiviso. Quindi dobbiamo intervenire sull’aspetto educativo se vogliamo che sia duraturo e questo richiede dei tempi più lunghi. Dobbiamo veramente pensare a cambiare le regole del lavoro se vogliamo che le donne abbiano le stesse opportunità e non debbano fare scelte drastiche come quella di lasciare il lavoro».

Dal punto di vista del datore di lavoro e da quello del dipendente, quando lo smart working è uno strumento produttivo?

«Dal punto di vista del datore di lavoro è utile se conosce le persone e sa gestirne le capacità. Chi non riesce a dare priorità bene al lavoro, chi ha il senso dell’isolamento, chi non sa risolvere i problemi, chi ama le relazioni interpersonali fatica moltissimo a lavorare in smart working. Quindi questo è il primo approccio: conoscere le persone e valorizzarle per quelle che sono le loro capacità e competenze; secondo aspetto: il datore di lavoro deve avere la possibilità di migliorare le performance. Cioè se la persona in smart working lavora meglio, questo diventa un motivo per lasciarla lavorare a casa. Un’altra ragione per la quale è proficuo è che se riesce a fare una turnazione degli spazi, per esempio di scrivanie che non sono più attribuite alla singola persona, ovviamente riesce anche a risparmiare sui costi. Per il lavoratore l’opposto: il lavoratore sta bene in smart working se questo gli permette di lavorare meglio. Se questa modalità di lavoro gli fa peggiorare la situazione di benessere personale perché si sente isolato o perché con i bambini piccoli lavora male e preferisce andare in ufficio o gestirli diversamente non ha senso».

Qualche esempio di realtà aziendali virtuose in questo senso?

«Coca Cola Italia, per esempio, durante la pandemia era già attrezzata e faceva lo smart working da tempo: era riuscita a trovare dei modi per compensarlo per chi è in produzione e per non farlo diventare divisivo. Un’altra realtà che lavora in questo modo è Tetra Pak dove lo avevano organizzato ben prima della pandemia proprio per queste ragioni, perché il giusto mix tra lavoro in ufficio, in produzione e strumenti per il lavoro flessibile crea quell’armonia necessarie per la sostenibilità sia economica che sociale. Poi ci sono le grandi società di consulenza: in Accenture per esempio si va in ufficio una o due volte alla settimana per creare e mantenere il senso di squadra».

Oggi i giovani considerano lo smart working un elemento prioritario nella scelta del posto di lavoro: come mai?

«Da mamma e da docente universitaria che di giovani ne vede tanti, ho una preoccupazione. Se prima dicevo che c’è una mancanza di fiducia nelle persone in questo caso dico che è una mancanza di fiducia nei confronti del mondo. C’è una tendenza ad isolarsi e a rinunciare alle relazioni che comportano un investimento emotivo di mediazione, di confronto che invece secondo me è molto importane e che invece quando è mediato dagli strumenti è più facile. Credo che ci sia bisogno di ritornare sulle relazioni perché sul posto di lavoro c’è una conoscenza tacita che si trasferisce solo quando vedi qualcuno eseguire quel lavoro, quando gli stai vicino e apprendi quello che nessuna procedura e nozione scritta ti darà mai. Credo che sia un errore cercare solo un lavoro da casa. Di fronte alla richiesta dei giovani vanno creati dei meccanismi compensativi: se un’azienda non può offrire lo smart working, può per esempio offrire possibilità di remunerare il tragitto, o la possibilità di fare la settimana corta stando due ore più, o, la flessibilità in entrata e in uscita»l © RIPRODUZIONE RISERVATA