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25 aprile. L’attualità di essere antifascisti

Cristiano Meoni
 25 aprile. L’attualità di essere antifascisti

Basterebbero due sole parole, «sono antifascista», per chiudere definitivamente la diatriba che si ripropone ogni 25 Aprile e suggellare la pacificazione nazionale auspicata da Alcide De Gasperi quando fu istituita la Festa della Liberazione.

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In un mondo ideale Giorgia Meloni, oggi, espletate le formalità istituzionali all’Altare della Patria, infilerebbe l’A1 a sirene spiegate in direzione Marzabotto, teatro della più grande strage nazifascista. Qui, tra gli “ooh” e molti preventivati “fischi”, strapperebbe anche qualche applauso di sorpresa.

Basterebbero due sole parole, «sono antifascista», per chiudere definitivamente la diatriba che si ripropone ogni 25 Aprile e suggellare la pacificazione nazionale auspicata da Alcide De Gasperi quando fu istituita la Festa della Liberazione.

Essere antifascisti significa amare la libertà. Come è possibile esitare a definirsi antifascista? Non capisco i silenzi, gli imbarazzi, le reticenze: la libertà è un valore universale, «una parola incommensurabile come il cielo, irraggiungibile da mano umana come un astro» scrive Philip Roth, tra l’altro più sfruttata a destra che a sinistra negli ultimi trent’anni. Non comprendo il fastidio per chi oggi celebra il giorno in cui milioni di italiani si ribellarono alla dittatura: non dovrebbe essere una “festa nazionale” nella quale un popolo ritrova le fondamenta della sua convivenza civile? Ieri abbiamo raccontato il “mood” del centrodestra emiliano-romagnolo nell’approcciarsi al 25 Aprile.

Mi ha colpito che molti dei politici contattati abbiano chiesto di non essere citati o hanno rifiutato di rilasciare dichiarazioni o hanno menato “il can per l’aia”. Accanto a posizioni aperte, come quella del viceministro Galeazzo Bignami o del ministro Gennaro Sangiuliano, una coltre incomprensibile di silenzi. Ma se il 25 Aprile è stato egemonizzato dalla sinistra, anche nelle forme più estreme, è perché la destra non l’ha mai vissuto come una festa nazionale, piuttosto come un’onta da evitare: ha abbandonato il campo, senza contenderlo, di una giornata nata come patrimonio comune di socialisti, laici, cattolici, liberali, comunisti. Quest’anno ricorre il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, trucidato dagli scagnozzi fascisti il 10 giugno 1924. Quale irripetibile occasione di riconciliazione... ma si è partiti con il piede sbagliato: la censura, perché di questo si tratta, del monologo di Antonio Scurati.

Scurati dice cose opinabili sulla premier, ma niente autorizza la Tv di Stato a mettergli la mordacchia, tuttalpiù avrebbe dovuto contrapporgli un parere diverso. Ma anche in questo caso la destra ha balbettato, trincerandosi dietro un finto motivo economico (1800 euro lordi per un autore di bestsellers (!) impallidiscono di fronte a molti cachet Rai) senza dire chiaramente quello che avrebbe dovuto dire: scusateci, abbiamo fatto un autogol, Scurati avrà la tribuna che gli era stata accordata ma una tribuna l’avrà anche un pensiero diverso, e i telespettatori, in un libero gioco democratico, potranno orientarsi e scegliere. Grazie a questo suicidio mediatico, oggi quel monologo che pochi avrebbero visto in tv sarà letto nelle piazze e rilanciato dai media e raggiungerà centinaia di migliaia di persone.

Che poi il succo del discorso è ancora tremendamente attuale: un partito che, dopo aver nascosto la “Fiamma” con Gianfranco Fini, l’ha rimessa in bella evidenza e non riesce ancora a tagliare con il passato.

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