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Paolo Zamboni: «I nostri sensori sugli astronauti, la ricerca dell'Università di Ferrara  va in orbita»

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Il ricercatore: «La “missione” a gennaio 2025 sul rapporto cuore-cervello» Gli studi sulla sclerosi multipla? «L’ostracismo dei neurologi danneggia la scienza»

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Ferrara «Nei primi quindici anni della mia vita da medico sono stato un chirurgo, una vita che amavo profondamente. Anche come ricercatore sono stato fortunato e sono riuscito ad ottenere, prevalendo in numerosi bandi competitivi, finanziamenti che mi hanno consentito di valorizzare i giovani e di portare i risultati del nostro lavoro dai laboratori al letto del paziente». Paolo Zamboni, 67 anni, ordinario di Unife, è un esperto di Medicina traslazionale, il campo di studi cui è delegata la “missione” di applicare nella pratica clinica quanto viene scoperto dalla ricerca di base. Due anni fa ha “festeggiato” i 40 anni da medico con un post in cui ha elencato i successi, ma anche le amarezze e le delusioni di una carriera che sta aggiungendo nuovi capitoli ad un curriculum già molto ricco.

Far dialogare assistenza e ricerca. Nel suo curriculum più la prima o la seconda?

Ho sempre fatto coincidere entrambe. Richiede più fatica, però dà anche maggiori soddisfazioni. Anche quando le persone si rivolgevano a me per prestazioni rutinarie mi chiedevano comunque qualcosa di più. Oggi lavoro con i medici in formazione specialistica ma assistenza e ricerca restano i due poli di riferimento. È un lavoro che richiede molta energia, il rovescio della medaglia sono gli stimoli che ti spingono a non fermarti, ad andare avanti.

Sono trascorsi almeno 15 anni da quando il suo nome ha fatto il giro del mondo sospinto dal progetto di ricerca “Brave Dreams”, nato a Ferrara con l’obiettivo ambizioso di verificare se la causa o una delle le cause della sclerosi multipla può essere il malfunzionamento della circolazione venosa (Ccsvi).

I passi preliminari di quel progetto risalgono al luglio 2006 quando la Royal Society of Medicine, consesso scientifico tra i più prestigiosi, mi ha invitato ad una lettura di presentazione delle ipotesi di ricerca su cui stavo lavorando. Nel 2007 il Comitato etico del Sant’Anna autorizzò gli esami venografici mirati sulle vene cerebrali e abbiamo iniziato a operare i primi casi.

L’esito della sperimentazione non è stato all’altezza delle prime aspettative, ma nemmeno del tutto deludente – questo era stato scritto all’epoca – almeno per un sottogruppo di pazienti.

Avevamo eseguito un numero non molto alto di interventi di ricerca su circa 250 pazienti. Metà di loro, con cui sono rimasto in contatto, hanno avuto una remissione della malattia. La sperimentazione aveva fatto emergere un dato interessante: su circa un terzo dei pazienti l’eliminazione delle stenosi venose aveva prodotto gli effetti sperati. Sarebbe stato importante approfondire gli studi in questo ambito, certamente più ristretto rispetto al primo ma promettente. Capire, cioè, su quali gruppi di pazienti concentrare ulteriori indagini in modo da confermare o escludere una possibile causa o concausa vascolare. La sclerosi multipla, ancora oggi, non ha una terapia che consenta al malato di superare la malattia: i farmaci disponibili non garantiscono questo risultato.

Perché, allora, la ricerca si è fermata?

In realtà basta eseguire una ricerca su Google Scholar digitando “chronic cerebrospinal venous insufficiency syndrome”. Si noterà che il motore di ricerca trova 59mila documenti scientifici. Il problema vero è che è mancata la collaborazione dei neurologi, gli specialisti che prendono in carico i pazienti. Hanno eretto un muro ingiustificabile dal punto di vista scientifico, un ostracismo nei confronti degli specialisti vascolari che non ha giovato alla scienza. Si potrebbe pensare che se le risposte arrivano da chi sta fuori dal gruppo si rischia di perdere rilevanza. Inoltre nella ricerca sulla sclerosi multipla è fortemente presente l’industria del farmaco. E, non ultimo, bisogna allontanare chi – profittatori e malintenzionati – usa la ricerca per altri fini e propone l’angioplastica a chiunque, anche al paziente in carrozzina da anni e che fatica a respirare. I nostri studi in “Brave Dreams” ci avevano suggerito di circoscrivere una coorte (gruppo mirato di pazienti, ndr) compresa nel range 2-5.5 in una scala 1-10 che include tutte le evoluzioni della malattia. In un terzo di questi pazienti non si erano formate nuove lesioni, purché l’angioplastica avesse correttamente ripristinato il flusso. Poteva essere il punto di partenza per ulteriori ricerche, che comunque si fanno e producono risultati: neurologi australiani hanno accertato un aumento della pressione nelle vene cerebrali dei pazienti con sclerosi multipla, studi eseguiti con tecnologie molto avanzate e pubblicati su riviste specialistiche.

È ormai un’esperienza archiviata per il ricercatore Paolo Zamboni?

Tutt’altro. Ci siamo resi conto che il restringimento dei vasi cerebrali può condizionare il funzionamento di determinati organi. Con un gruppo di audiologi e di neurochirurghi abbiamo avviato una collaborazione che ha prodotto risultati importanti. Abbiamo quindi presentato un progetto per accedere al Pnrr assieme ad altre unità operative e università italiane, come quella di Catania, che ha lo scopo di individuare un’eventuale responsabilità di queste anomalie vascolari nei disturbi neurosensoriali dell’orecchio interno (sindrome di Ménière, vertigini parossistiche, ecc., disturbi fortemente invalidanti). Al Sant’Anna è stato riconosciuto un finanziamento di un milione di euro. Se il Comitato etico darà il via libera a breve, entro l’autunno partirà la sperimentazione. Con audiologi e neurochirurghi si è creato un dialogo costruttivo che non è stato possibile stabilire con i neurologi per la sclerosi multipla. Resta l’amarezza, ma anche una constatazione. In molti campi gli studiosi abbandonano i filoni infruttuosi, ai pazienti con sclerosi multipla si continuano a somministrare farmaci che non bloccano la progressione della malattia, al massimo portano una riduzione degli attacchi.

Dieci anni fa avete avviato una collaborazione con l’astronauta Samantha Cristoforetti che ha avuto grande risalto. Nella Stazione Spaziale Internazionale, durante la missione Futura, furono condotte alcune sperimentazioni ideate ed eseguite da lei e da un gruppo di ricercatori di Unife. Cosa hanno prodotto quegli studi?

Siamo andati avanti. La Telemedicina – che Asl e Sant’Anna, in questa provincia, stanno promuovendo molto attivamente – ha ricevuto una notevole spinta da quei test scientifici. Oggi il Sistema sanitario nazionale, e anche i pazienti, non credo possano rinunciare facilmente a una prospettiva che si è aperta perché è  efficiente, riduce i costi e le liste d’attesa. Contribuisce a garantire, in concreto, la sostenibilità. In orbita,  comunque, Unife tornerà a gennaio 2025. Abbiamo messo a punto un sistema non invasivo formato da  quattro sensori che si applicano attorno al collo e al torace degli astronauti per captare i segnali che provengono dal cuore e dal cervello, dati che possono essere associati “in diretta” al tracciato di un  elettrocardiogramma. Potremo ricostruire con precisione come funziona dal punto di vista circolatorio
l’interrelazione cuore-cervello e cervello-cuore. Questi sensori possono anche evidenziare l’insorgenza di una trombosi (un caso clinico realmente avvenuto nella Stazione spaziale) e consentire quindi un intervento tempestivo. Questa diagnostica renderà più sicura per tutto il personale la permanenza nella stazione spaziale. Lo strumento è stato validato per l’uso clinico e potremo quindi utilizzarlo, in collaborazione
con il Dipartimento interaziendale cardio-toraco-vascolare diretto dal dottor Biagio Sassone, in un progetto
di Telemedicina. Voglio aggiungere una considerazione: la ricerca è fondamentale anche nell’ordinario. Quando ho iniziato a lavorare per un intervento alle varici si restava ricoverati una settimana, oggi il
paziente può gestirsi autonomamente poco dopo essere uscito dalla sala operatoria.

Gioele Caccia

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