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Il caso

Ferrara, pentito minacciato in cella: «Te la farò pagare»

Alessandra Mura
CARCERI, carcere DI FERRARA  Via Arginone  penitenziario - esterno
CARCERI, carcere DI FERRARA Via Arginone penitenziario - esterno

Intercettate da un altro detenuto le lettere destinate agli inquirenti, ora è sotto protezione

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Ferrara Minacciato di morte per aver collaborato con gli inquirenti, facendo condannare con le sue rivelazioni diversi esponenti di bande criminali dedite al traffico di droga e di armi tra il nord Italia e i Balcani. Dal carcere dove è detenuto in regime di massima protezione, ieri un quarantenne ha testimoniato in videocollegamento al processo che vede imputato per il reato di minacce aggravate Filadelfio Vasi, 48 anni, originario di Varese.

All’epoca dei fatti entrambi erano rinchiusi all’Arginone, «io nella sezione quarta, Vasi nella terza e tra i cancelli delle due sezioni c’era una distanza di circa tre metri», ha testimoniato ieri la parte offesa rispondendo alle domande del viceprocuratore onorario Alessandro Rossetti. L’uomo ha ripercorso l’episodio del marzo del 2016 da cui è partito tutto. «Avevo scritto due lettere, una indirizzata ai Ros di Udine, l’altra alla Direzione distrettuale Antimafia di Trieste», missive che però non erano arrivate a destinazione.

A “intercettarle” era stato proprio l’imputato, addetto all’Ufficio Spesa, che se ne era appropriato. «Attraverso le barriere, ho visto che Vasi teneva in mano le mie lettere. Gli agenti della Polizia penitenziaria se ne sono accorti, gliele hanno prese e le hanno riconsegnate a me. In questo modo Vasi ha capito che ero in contatto con gli inquirenti».

Le minacce, ha spiegato, «non sono cominciate subito, ma qualche giorno dopo». Minacce dotate di concretezza, ha sottolineato il testimone «perché Vasi a sua volta aveva rapporti con i gruppi criminali che io avevo contribuito a far condannare».

La ritorsione non si limita al detenuto-pentito, ma tocca anche i suoi familiari, la madre e i figli, a cui arrivano telefonate inquietanti e intimidatorie. La promessa è quella di ricevere ritorsioni sia per la sua collaborazione trascorsa, sia per ulteriori altre dichiarazioni che avrebbe fatto in futuro. Un clima sempre più denso di pericoli al punto che il detenuto-pentito nel marzo del 2017 viene trasferito in un altro carcere, e successivamente inserito in un livello di protezione ancora più ristretto. Da allora sono passati sette anni, durante i quali «i miei familiari, mia madre e i miei due figli, hanno dovuto subire una situazione in cui non c’entrano niente». Per questo quando la giudice gli ha chiesto se, in caso di riformulazione del capo di accusa in un reato procedibile solo a querela di parte, avesse intenzione di ritirare la denuncia, la risposta è stata senza esitazioni: «Sì, la ritirerei. Ho tagliato i ponti con il mio passato, mi sono dissociato, sto chiudendo i miei debiti con la giustizia e non desidero avere altre pendenze. E soprattutto, non voglio causare altro male ai miei figli che hanno già sofferto abbastanza».