Ferrara, la Memoria della Shoah vive in quindici pietre
Posate le pietre d’inciampo in via Mazzini davanti alle case degli ebrei che sono stati sterminati ad Auschwitz e non hanno mai fatto ritorno in città
Ferrara Nel cuore del ghetto ebraico, un luogo dell’anima. Mattinata di vento sferzante, di silenzi o di parole sussurrate. Si alza il velo del ricordo, ritmato dal suono di un violino accarezzato dalle mani di Alessandro Perpich. Via Mazzini, questa mattina, teatro di sguardi e rimembranza di orrore. La Shoah… L’Olocausto… Il giorno della memoria diventa l’appuntamento per la messa a terra di quindici pietre d’inciampo. La cerimonia di posa davanti a tre abitazioni in cui furono rastrellate famiglie ebree ferraresi, inaugura un progetto collettivo sulla reminiscenza. Un museo diffuso a cielo aperto. Le stolpersteine, le targhe di ottone che strattonano l’umanità alle tragiche deportazioni nazi-fasciste. Un cubetto (10x10, quanto un sanpietrino) incastonato nel selciato davanti alle case delle vittime. Si parte da qui, di fronte alla sinagoga.
Si procede per tre tappe (civici 88, 85 e 14). Solo l’inizio. Appena il principio di un disegno ampio costruito con pazienza e sensibilità dal Comune e dalla comunità ebraica di Ferrara. Tanti. Troppi non hanno fatto ritorno: tutti sterminati e disumanizzati ad Auschwitz. Polverizzati… Nello, scolaro quindicenne; Carlo, studente diciassettenne. Gastone (autista trentaquattrenne), Leonella, casalinga di quarant’anni. Poi Isacco, Giuseppe… Ragionieri, avvocati, venditori ambulanti. E ancora… E ancora… Sospiro. Tristezza e spirito. C’erano tutti, simbiotici dal palpitare all’unisono: il Prefetto Marchesiello, le autorità religiose, i politici di ogni corrente. Le forze dell’ordine, gli amministratori. Austeri il presidente della comunità ebraica Fortunato Arbib, il capo rabbino Rav Luciano Caro e il direttore del Meis, Amedeo Spagnoletto. È quest’ultimo a imprimere un senso e fare sintesi. Con una parola: chazak. Sii forte, continua nell’opera. «Questo è l’inizio di un percorso – spiega Spagnoletto -; la comunità ebraica ferrarese è vicina ad Alan. Vai avanti, forza». Alan è il sindaco Fabbri, cappotto scuro e fascia tricolore ad avvolgerlo. Al microfono va dritto al punto: «Stiamo vivendo un momento importante per ricordare. E non dimenticare. Un’esortazione rivolta soprattutto alle giovani generazioni, affinché non accadano mai più tragedie come l’olocausto. Sarà banale dirlo ma è giusto sottolinearlo. La comunità ebraica ferrarese rappresenta mirabilmente la città sotto il profilo culturale, sociale, economico e teologico. Questo appuntamento è frutto di un lavoro articolato tra Comune, comunità e scuola».
Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome. Su ogni pietra d’inciampo sono suggellate vite. Brevi. Uniche. Fiere. «Diamo inizio ad una progettualità ben più ampia – sottolinea Fortunato Arbib -: teniamo accesa la memoria dei deportati assassinati nei lager. Oggi posiamo le prime quindici pietre di un’ampia lista. Portiamo luce non sui singoli nomi, ma su storie di famiglie. Queste pietre diventano parte urbana, sono città. Si integrano nella memoria pubblica e nella quotidianità. Le vicende ad esse correlate non rappresentano solo una riga nei libri di storia: restituiscono dignità all’essere umano. Tutti insieme rifiutiamo la violenza: fisica e verbale. Attraversando le strade del ghetto verrà spontaneo chiedersi cosa sono quelle strane pietre posate sul selciato». «Oggi si compie un piccolo miracolo» sussurra Enrico Fink mentre vengono posate le stolpersteine dedicate alla sua famiglia. «In qualche modo qui c’è anche mio padre» aggiunge. Dal civico 88 all’85, poi al 14. La camminata è breve, la consistenza dell’aria spessa. Il rabbino Caro intona una preghiera. Ad ogni step vengono letti i nomi incisi sulle pietre. Si mormora la data di nascita, quella di morte. Laconico: “Non è sopravvissuto al campo di concentramento”. «Vengano iscritti i loro nomi nel libro della vita - declama Caro -; la cerimonia è commovente, certo. Ma le pietre fungano come sollecitazione a fermarsi un momento e porsi delle domande. Ad esempio: oggi, a fronte di un nuovo pericolo di shoah, quale sarebbe il nostro atteggiamento? Oppure: è ragionevole che sia necessaria la presenza delle forze armate per difendere i luoghi di culto?».
Paolo Calvano, capogruppo Pd in Regione, ci riflette. Eccome. «Ognuna di queste pietre è un piccolo frammento di una storia che non possiamo permettere svanisca nell’oblio – afferma -; Ferrara si arricchisce di un simbolo silenzioso ma potente, che ci costringe a inciampare nella memoria di chi è stato privato della propria vita. Della propria dignità. È un gesto che non solo onora le vittime della shoah, ma ci richiama alla responsabilità di non dimenticare mai. Affinché il passato non resti impunito e la nostra coscienza collettiva continui a crescere». La chiosa è di Alan Fabbri: «Grazie ad un lavoro corale si stanno cercando le storie di altri ebrei ferraresi vittime della shoah: il progetto, quindi, proseguirà. Sì, confermo: realizzando un museo diffuso a cielo aperto. In tutta la città». Che osserva ed ascolta finché i passi non svaniscono. Finché non si sente altro che i sospiri delle automobili, il fragore dei treni. Il rumore di tutti quelli che corrono nel freddo. Tutto quello che non vediamo è a portata d’inciampo. «Chiediamoci cosa sono queste pietre» ribadisce Arbib. E quali storie della nostra Ferrara insistono a raccontarci.