Gli europei avevano tutti la pelle nera, l’incredibile scoperta all’Università di Ferrara
Una scoperta di portata mondiale, frutto del lavoro dell’equipe di ricerca condotta dal genetista Guido Barbujani: fino a 3mila anni fa la pigmentazione dell’Homo sapiens era scura
Ferrara Fino a 3mila anni fa gli europei avevano la pelle scura. Spiegato in modo facile: se la storia dell’Homo sapiens nel nostro continente si potesse racchiudere in una giornata di 24 ore, fino alle 20 in Europa saremmo in prevalenza neri, anche nel Nord Italia, anche in Emilia – Romagna. Questa straordinaria scoperta di portata mondiale è frutto di tre anni di lavoro dell’equipe condotta dal genetista Guido Barbujani con un gruppo di ricercatori del dipartimento di Scienze della tita e biotecnologie dell’Università di Ferrara. Una rivelazione che ha ricadute tanto storico scientifiche quanto culturali, resa possibile grazie all’applicazione degli strumenti della polizia scientifica allo studio dei reperti. «Fino ad ora nessuno era mai potuto arrivare a queste conclusioni – spiega Barbujani – perché la pelle non lascia residui fossili, ma adesso ci sono sistemi sviluppati dalle scienze forensi, come il test HIrisPlex-S, capaci di rilevare dal Dna contenuto nelle ossa il probabile colore di pelle, occhi e capelli. Questo ha permesso di avviare uno studio sistematico che fino ad ora era stato impossibile».
L’analisi, avviata inizialmente dal professore ferrarese assieme alla genetista spagnola Gloria María González Fortes, è poi proseguita con il dottorato della dottoressa Silvia Peretti e il contributo del gruppo formato da Maria Teresa Vizzari, Patricia Santos, Enrico Tassani, Andrea Benazzo e Silvia Ghirotto. I ricercatori di Unife hanno raccolto dati sui resti di 350 individui provenienti da Europa e Asia in un arco di tempo da 40mila a 1.500 anni fa, ovvero dai primi sapiens europei fino all’età del ferro. «Il nostro punto di partenza è stato che la pelle umana 6 milioni di anni fa probabilmente era bianca perché le prime popolazioni che vivevano in Africa erano coperte di pelo, come gli scimpanzé. La fitta peluria serviva per proteggersi dalla luce del sole che rischiava di degradare il folato, molecola deputata alla produzione di nuove cellule e fondamentale soprattutto in gravidanza, quindi essenziale per la sopravvivenza della specie. Quando abbiamo iniziato a perdere il pelo, la pelle è divenuta necessariamente più scura, sempre per proteggere i folati e sviluppare un sistema immunitario che ci permettesse di vivere più a lungo. È così che dovevano essere i primi Homo sapiens 200mila anni fa in Africa. Quando poi 50mila anni fa sono iniziate le migrazioni verso Nord, le prime popolazioni europee sono state necessariamente di pelle scura».
Se oggi gli europei hanno la pelle chiara è perché essendo meno esposti alla luce solare, hanno avuto bisogno di favorire la cattura dei raggi UVB che stimolano la produzione di vitamina D. Inoltre, la dieta dei contadini del Neolitico provenienti dall’Anatolia (l’attuale Turchia), che sono succeduti alla migrazione dei cacciatori africani del Paleolitico, era più ricca di vegetali che di carni, e questo generava ulteriori carenze vitaminiche che andavano compensate. La domanda che gli scienziati si sono posti è stata: quanto tempo ci abbiamo impiegato a cambiare colore? La risposta, in termini molto semplificati, è: rispetto all’evoluzione dell’uomo, pochissimo tempo. «Se all’epoca ci fossero state le attuali politiche migratorie europee saremmo ancora tutti con la pelle scura – scherza Barbujani – solo dall’Età del Bronzo cominciano a essere frequenti individui di pelle più chiara, che iniziano a prevalere con l’Età del Ferro. Nel momento in cui si colloca la leggendaria fondazione di Roma, ancora una parte significativa della popolazione europea aveva la pelle scura». In sostanza Romolo e Remo potrebbero essere neri.
L’unico significativo precedente di questa scoperta è circoscritto al cosiddetto “uomo di Cheddar”, dai cui resti fossili, datati a 10mila anni fa e trovati in Inghilterra nel 2018, si è scoperto che aveva occhi chiari, capelli neri ondulati e carnagione scura. Quello che ha fatto il team ferrarese è stato ampliare e affinare la ricerca, creando un protocollo probabilistico con particolari metodi statistici, per leggere sia dati molto attendibili, sia dati di qualità inferiore, in modo da non trascurarne nessuno. L’articolo che contiene tutte le evidenze a cui si è giunti, dal titolo “Inferenza della pigmentazione umana dal Dna antico per probabilità di genotipo” è stato pubblicato un mese fa sul sito BioRxiv, che raccoglie i testi scientifici prima che siano sottoposti a revisione tra pari e pubblicati su una rivista accademica. Che sarà Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas), una delle riviste scientifiche più prestigiose e rispettate al mondo.
«Sono molto orgoglioso dell’operato di questa equipe. Molti lavori nel nostro campo costano tanto e coinvolgono decine di realtà, in questo caso noi abbiamo fatto tutto da soli ottimizzando le risorse e credendoci molto. Il prossimo anno andrò in pensione e il mio percorso accademico non poteva concludersi in modo migliore. La ricerca proseguirà grazie a questi ragazzi e io continuerò a supportarli se avranno bisogno di un confronto, perché sappiamo che, quando si arriva ad un risultato, si aprono anche nuove domande». E se si chiede a Barbujani quali implicazioni politiche pensa che avrà questa notizia, risponde: «Nessuna a meno che non ci sia un suprematista bianco. In quel caso certe idee ricorrenti sulla razza europea andranno un po’ riviste, anche perché si può propugnare ogni tipo di ideologia, ma l’evidenza scientifica è questa, c’è poco da fare».