Show a Modena di Wanna Marchi: «Io, icona di stile»
Con la figlia Stefania tra selfie e conferenza: «Chi ci odia è solo invidioso di ciò che siamo»
Arrivano al Caffè concerto due ore prima. L’evento è fissato alle 18.30, Wanna Marchi e Stefania Nobile, le due ex regine delle televendite, si presentano intorno alle 16.30.
«L’hotel è, in generale, un luogo così triste. Poi non veniamo a Modena da almeno trent’anni, un giretto era doveroso», dicono. Dopo qualche foto e autografo con i fan che le hanno fermate sotto il portico del Caffè concerto, si accomodano al tavolo per l’intervista con la Gazzetta. Chiedono un po’ di acqua, qualcuno fa notare una scritta sull’elegante camicia di Marchi e lei risponde: «Francamente non l’avevo neanche notata, sono andata in un negozio e l’ho subito comprata». È nello stile di entrambe, d’altronde, senza alcuna accezione dispregiativa…
«Siamo fatte così. Di molte cose non ci interessa, compreso degli insulti. Che poi, detta tra noi e senza voler fare arrabbiare nessuno, sono pochissimi. Ma ricordiamolo a bassa voce».
Perché?
«Specifichiamo il fatto che nessuno, dal vivo ha il coraggio di denigrarci. Tutt’altro: ci chiedono sempre foto e autografi. Sui social siamo molto famose, e com’è normale che sia ci sono bolle di haters. Ma risultano essere particolarmente limitate, anche perché si tratta solo di frustrati invidiosi che farebbero istantaneamente cambio con la nostra vita».
Anche con i nove anni e mezzo di carcere che avete fatto?
«Crediamo sia stata un’esperienza formativa. Il nostro passato è stato vissuto in maniera consapevole, tornando indietro rifaremmo tutto ciò che abbiamo costruito. Dal periodo di reclusione si esce persone diverse».
In che senso?
«Siamo donne molto forti, ma alcuni traumi sono stati lasciati. Facciamo fatica a chiudere le porte a chiave, ad esempio, perché ci è venuta paura dopo quell’esperienza. Poi noi guadagnavamo tantissimo, e dall’oggi al domani ci siamo ritrovate nel nulla. I vizi, il lusso, erano ricordi del passato. Abbiamo cominciato a dare un valore alle cose».
Dall’alto del vostro vissuto, credete nella giustizia?
«Assolutamente no. Abbiamo preso nove anni e mezzo a testa, con l’accusa di omicidio probabilmente sarebbero stati sei. Come si fa ad avere fiducia?».
Credete ci possa essere un miglioramento legislativo nel futuro?
«La risposta rimane la stessa che abbiamo dato prima: chiaramente no. Vediamola da una prospettiva diversa. Oggi in tribunale entra la persona, in carcere i reati. Dovrebbe essere il contrario, tale per cui in carcere va la persona giudicata per i propri errori in tribunale, non con una pena che varia a seconda dell’antipatia che il giudice prova nei confronti dell’imputato».
Poi, dopo un lungo periodo, siete tornate in libertà. Vi siete riuscite a reinserire all’interno della società?
«La gente quando ci vede è stupita. Siamo entrambe tenute molto bene, abbiamo uno stile inconfondibile. Molti rimangono increduli, esprimono affetto. Ma, alcuni di loro, rosicano per il nostro stato di forma. Si pensa spesso che dal carcere si esca rovinate, noi ne siamo venute fuori rigenerate».
Vi aspettavate, durante gli anni di reclusione, un’accoglienza così positiva?
«Certamente, in carcere ci arrivavano ogni settimana mucchi di lettere da parte dei nostri fan. Siamo state costrette a stare mute per una decina di mesi dopo l’arresto e siamo diventate delle streghe per l’opinione pubblica. Ma in tanti non hanno creduto a quella narrazione».
Il vostro è stato, probabilmente, il primo processo massmediatico della storia repubblicana, essendo nato da un’inchiesta di Striscia la notizia del novembre del 2001 arrivata solo successivamente in tribunale. Insomma, il vostro ambiente vi ha voltato le spalle…
«Infatti ora, in televisione, non ci invitano più. Diamo fastidio, e abbiamo soprattutto una dote: facciamo schizzare in alto lo share. Ovviamente questo nuoce a chi lavora in quel mondo, perché perderebbe il lavoro».
Fuori dalla sala vi stanno aspettando tanti giovani, che probabilmente in Tv non vi hanno mai visto. Perché?
«Merito del nostro ultimo libro, “Fine pena mai” edito dalla startup SwiteNFT Italia, e anche della serie che Netflix ci ha dedicato, dal nome “Wanna”. Siamo diventate un vero e proprio fenomeno giovanile, dimostrato dal successo sui social».
Quindi se vi si definisce come icone di stile per parte degli under 30 non vi offendete, vero?
«Assolutamente no, anzi. Per noi è un piacere e un onore, anche perché siamo la dimostrazione di come si possa imparare dai propri errori».
Allora il dubbio sorge spontaneo: credevate a ciò che vendevate?
«Dipende: i cosmetici erano prodotti ottimi, e su questo non ci piove. Gli amuleti e gli altri oggetti usati, ad esempio, per la cura del malocchio sono dinamiche complesse che richiederebbero ore di discussione. Fatto sta che se dai a un presunto malato di malocchio qualcosa di sperimentato per curarlo, è evidente che guarisca, visto che come malattia non esiste. È una credenza popolare».