La Nuova Ferrara

L’intervista

Beatrice, dall’anoressia al momento più buio: «Ora sono guarita e faccio la personal trainer»

di Ginevramaria Bianchi

	Beatrice Soli
Beatrice Soli

La 29enne modenese racconta la sua storia in occasione della Giornata del fiocchetto lilla dedicata ai disturbi dell’alimentazione. La prima dieta a 8 anni, a 18 il vomito autoindotto poi è arrivata la svolta: «Ho accettato di aver bisogno di cure e mi sono fidata di chi mi aiutava»

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MODENA. Con un profilo Instagram che conta 35mila follower, prova ad accompagnare chi, proprio come lei un tempo, non riesce più a vedere il cibo come del semplice nutrimento per il proprio corpo ma, bensì, come un’ossessione. Beatrice Soli, modenese di ventinove anni, lotta con la lancetta della bilancia dall’età di otto anni. O meglio, lottava. Perché una volta finite le cure per anoressia nervosa, ha deciso di intraprendere la carriera da personal trainer e da attivista sui social, in modo tale da poter essere la spalla di qualcuno in difficoltà. La spalla che lei, ai tempi, non ha avuto.

Soli, riavvolgiamo il nastro. Quando sono iniziati i problemi col cibo?

«La mia prima dieta è iniziata quando ero una bambina, avevo 8 anni. Ma è stato il giorno del mio diciottesimo compleanno che il problema si è manifestato in modo evidente: per la prima volta mi sono autoindotta il vomito».

Quando ha capito che si trattava di un disturbo alimentare e non di qualcosa di passeggero?

«Mia madre si era accorta da subito che c’era qualcosa che non andava. Inizialmente pensava fosse un virus, anche perché io, ovviamente, mentivo. La verità è che l’anoressia nervosa era entrata nella mia vita: una privazione estrema del nutrimento, fino ad arrivare a mezzi compensativi come l’iperattività motoria. Solo così sentivo di meritarmi di mangiare».

Per quanti anni ha vissuto questa condizione?

«Quattro anni. Alternavo le visite e le lezioni a scuola. Dopo la maturità, non essendo più sottopeso, ho pensato di essere guarita, ma in realtà non volevo ammettere a me stessa che c’era ancora qualcosa di irrisolto. Dopo mesi passati senza il supporto di cui avevo bisogno, è arrivato un episodio di tentato suicidio. È stato il punto di svolta: ho chiesto aiuto, e questa volta davvero».

Spesso si parla dei disturbi alimentari solo in termini di cibo.

«Il cibo è solo la punta dell’iceberg. Traumi, relazioni, dolori. Il mio corpo era un campo di battaglia e il disturbo alimentare un meccanismo di controllo. Fa tutto parte di una sfera psicologica, più che fisica».

Qual è stata la chiave della sua guarigione?

«Accettare di aver bisogno di cure e fidarmi di chi mi stava aiutando. Costruire relazioni sane, senza giudizio. Ho riscoperto del tutto l’attività motoria, e ho iniziato a vederla non più come una punizione, ma come un modo per riconnettermi con il mio corpo. Lì ho capito che stavo guarendo, e da lì è nato il mio attuale lavoro».

Di cosa si occupa?

«Sono una personal trainer, ma lavoro anche in team multidisciplinari per aiutare chi soffre o ha sofferto di disturbi alimentari a rieducarsi al movimento in modo sano. Voglio che le persone riscoprano il corpo come un alleato, non come un nemico. Faccio anche tanta sensibilizzazione sui social e, recentemente, ho scritto anche un libro che si intitola “Tanti corpi, una sola casa”».

I social possono essere un'arma a doppio taglio.

«Cerco di fare un lavoro etico andando contro la fitness culture, che a parer mio è tossica. E poi cerco di fare in modo di arrivare a più persone possibili: mi emoziona sapere che grazie ai miei contenuti molte persone abbiano trovato il coraggio di chiedere aiuto».

Il 15 marzo è la Giornata nazionale del fiocchetto lilla, dedicata ai disturbi della nutrizione e dell'alimentazione. Quanto è importante parlare di questo tema?

«Fondamentale, ma non solo nelle giornate dedicate: tutti i giorni. Dobbiamo tenere alta l'attenzione su un problema che riguarda tantissime persone».

La situazione in Italia per chi soffre di disturbi alimentari è adeguata secondo lei?

«Guarire è possibile, ma solo se viene concesso. In Italia, al momento, non si fa abbastanza per concederlo. Al momento mancano posti letto nei centri specializzati e, in alcune regioni, addirittura non esistono. Tante famiglie, soprattutto al Sud, sono abbandonate a se stesse. I loro ragazzi vengono mandati al Nord per curarsi, lontani dalla propria rete di affetti, quando invece le relazioni sono cruciali per la guarigione. Si potrebbe fare molto di più».

Qual è il messaggio che vuole lasciare a chi leggerà questa intervista?

«Che non bisogna avere paura di chiedere aiuto. Che il futuro non fa così paura se ci si permette di costruire nuovi giorni fertili».

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