La sinfonia a spicchi di Mecacci «L’Istrice, Itoudis e la mia Cento»
Il tecnico dei biancorossi racconta la sua vita trascorsa in panchina Dagli esordi a Siena fino ai recenti successi colti nel biennio
l’intervista
L’ultimo palio l’ha vinto nel 2008, ma da allora di vittorie ne ha conquistate molte altre. Non in piazza del Campo, s’intende, bensì sul campo da basket, considerato che Siena non è solo la città del palio, ma è pure terra di basket. Matteo Mecacci da senese purosangue, nato e cresciuto nella contrada dell’Istrice, ha dentro di sé queste due passioni. E una l’ha fatta diventare una professione che gli sta dando grandi soddisfazioni.
Coach, dove ha inizio il suo legame con la pallacanestro?
«A Siena, ovviamente. Lì ho iniziato a giocare fin dal minibasket e poi a sedici anni ho avuto l’intelligenza di smettere: ero piuttosto scarso e poco portato per continuare. È stato uno storico allenatore delle giovanili a farmi fare i primi passi in panchina nella Virtus Siena, una società che con la prima squadra ha sempre militato nel terzo campionato nazionale, ma ha sempre avuto una grande tradizione giovanile e, come la Mens Sana, l’altra e più nota società senese, ha sempre investito molto sul vivaio. Da quel settore giovanile è iniziata la mia carriera di allenatore professionista».
Ora ha trentacinque anni, ma già a 21 era su una panchina.
«Sì, ero vice allenatore in B1 a Siena e quasi tutti i giocatori che allenavo erano più vecchi di me. È stato molto importante anche il lavoro fatto nel settore giovanile con squadre Eccellenza, allenando giocatori che poi hanno avuto una carriera importante come Tessitori, ora alla Virtus Bologna, o Imbrò che indossa la canotta di Treviso. Non posso dimenticare, a 25 anni, un’avvincente finale nazionale persa contro Treviso. Dopo sette, otto anni alla Virtus Siena e una promozione sono stato due anni a Lucca, dove ricordo di aver incontrato anche Ferrara; poi sono tornato a Siena sponda Mens Sana, che era ripartita dopo gli anni gloriosi dell’Eurolega e degli scudetti. Abbiamo vinto il campionato e siamo stati promossi in A2: ho fatto alcuni anni da vice prima del nuovo fallimento della società. E dopo una stagione da capo allenatore a Reggio Calabria sono arrivato a Cento nel 2019».
Si sente un enfant prodige?
«Mi scappa da ridere a pensarci, però in effetti la mia carriera da allenatore professionista è iniziata con dieci anni di anticipo rispetto alla media, che è attorno ai 35 anni. Però non mi sento un enfant prodige. Certo è che sono contento di avere fatto diverse esperienze, ho iniziato presto a rapportarmi alle situazioni di stress, ma mi sono tolto anche qualche soddisfazione. Perché qualcosa ho vinto e l’ho fatto pure a casa mia: non è mai facile essere profeta in patria».
Ha un allenatore al quale si ispira?
«Mi piace guardare il basket a trecentosessanta gradi e a tutti i livelli. La pallacanestro è un gioco in continua evoluzione e credo che ci sia sempre da assimilare e imparare qualcosa. Itoudis, allenatore del Cksa, mi piace molto come fa giocare la sua squadra. Poi ovviamente apprezzo come Messina ha cambiato il gioco di Milano».
Si sente più un coach da allenamento o da partita?
«Mi piace lavorare molto durante la settimana, preparare le partite con attenzione ai dettagli e alle situazione tattiche. Ho imparato che non è possibile prevedere tutto al cento per cento e quindi, rispetto a inizio carriere, ho imparato a fidarmi di più dei miei giocatori. In fondo sono loro i protagonisti della partita. Con la Tramec, quando a gennaio abbiamo avuto un vero tour de force e non potevamo nemmeno respirare, è stato divertente responsabilizzare i giocatori, dare a loro la libertà di risolvere le situazione. E i risultati si sono visti».
Tre parole per definire la Benedetto XIV?
«Passione, e lo dice uno che non ha mai potuto giocato una partita al palasport di Cento con il pubblico presente. Però, nonostante tutte le limitazioni imposte dal Covid, la passione si respira a tutti i livelli. L’altra parola è prospettiva, perché questa società si è data una struttura organizzativa che è necessaria per restare ad alti livelli. Infine dico serenità: a Cento si lavora bene, è stato creato un bel team e si sente la fiducia della società e del pubblico».
Non può mancare la domanda sugli obiettivi.
«L’anno scorso, nonostante avessimo una squadra totalmente nuova a parte Moreno, la missione era vincere. Durante l’estate abbiamo formato una squadra per la serie B avendo però la possibilità di puntellarla con due stranieri nel caso ci avessero ammessi alla A2. È successo e il nostro obiettivo è la salvezza, e credo che siamo a un passo dal raggiungerla. Poi, inutile nascondersi: i risultati stanno arrivando e faremo del nostro meglio di qui alla fine. La cosa positiva è che a Cento c’è progettualità. Abbiamo vinto qualche scommessa e l’idea è dare continuità tecnica a questo progetto, che di questi tempi è molto importante».
Dove si vede tra cinque anni?
«Non lo so, sono abituato a vivere alla giornata. Mi piacerebbe continuare a crescere non solo come carriera, ma anche a livello individuale. Sono consapevole di non essere lo stesso allenatore di dieci anni fa, così come non sono la stessa persona. Allenare mi diverte e questo è importante per chi fa il nostro mestiere, visto che stress e tensioni sono all’ordine del giorno». —
Mauro Cavina
© RIPRODUZIONE RISERVATA