Giorgio, il drago e la principessa Così Cosmé Tura celebra il santo
Nell’opera dell’artista ferrarese la donna ha un ruolo di grande rilevanza Nel dipinto il viso di lei rispecchia il terrore che prova di fronte al pericolo
Domani si celebrerà San Giorgio, patrono di Ferrara. Un santo per certi versi “problematico”. I cristiani ne esaltarono la figura tardi, rispetto ai martiri o ai degni di culto meno atipici: giusto al tempo delle Crociate. Un guerriero, ben poco ascetico, stonava tra devozione e misticismo, ma era funzionale all’idea di battaglia per la fede e gli ideali, così come Martino, Longino e Sebastiano, che richiamano insieme armi e credo. Il suo maggior sponsor, dopo le esperienze in Terrasanta, fu Riccardo Cuor di Leone, re d’Inghilterra. Ma era italiano Iacopo da Varazze, vescovo di Genova, colui che lo rese famoso ovunque, grazie alla Leggenda Aurea (fine XIII sec.), dove narrò nel dettaglio la lotta del cavaliere contro il drago che infestava le rive di uno stagno in Libia, per liberare la Principessa che il mostro stava per divorare.
L’OPERA DI COSMÉ TURA
“Gheorgos”, in greco “uomo che si occupa della terra”, non era un nome da eroe, e Iacopo dovette arrovellarsi per spiegarlo in modo che fosse adatto al personaggio. Lo si diceva vissuto nel IV secolo e originario della Cappadocia (Turchia). Ferrara, avendo eletto Giorgio suo patrono, ha assai contribuito alla sua esaltazione per mezzo dei maestri locali. Non sempre nella scena dipinta o scolpita è presente la Principessa. Cosmé Tura, punta di diamante della pittura estense, ci ha lasciato una delle più esaltanti rappresentazioni della fiaba cavalleresca di Giorgio nelle ante dell’organo della Cattedrale eseguite nel 1469, una macchina artistica di livello e di difficile lettura che comprende anche una parallela Annunciazione. Qui alla Principessa è dedicato uno spazio ben maggiore rispetto alle versioni coeve. Tura lascia a lei il ruolo più moderno, Giorgio è meno desueto. Nelle agiografie viene chiamata Silene, oppure Sabra, non di rado vi si accenna anche alle sue nozze con Giorgio, dopo il dramma.
BORSO E L’EGITTO
Nel dipinto ha il viso che rispecchia il terrore che prova. La sua agitazione riflette un nuovo uso della resa dinamica dei corpi dipinti, studiata anche da un dottissimo amico degli Estensi, Leon Battista Alberti, che ne trattava nel De pictura del 1435: nato a Genova nel 1404 da un mercante toscano in esilio, si laureò forse a Ferrara, mentre vide Firenze solo nel 1428, quindi già adulto e formato. La giovane indossa una veste color porpora, regale, ornata di ori e gemme, lo stesso stile prediletto dal duca Borso d’Este, che era sul trono quando Tura eseguì le ante, e si noti che la porpora, dagli imperatori ai cardinali, è da sempre legata a fasto, rango e potere. Ha sul capo una acconciatura che pare sia ispirata alla Sfinge, azzeccata nel contesto esotico che richiama l’Egitto di astrusi libri esoterici.
L’intonazione magico – mistica – ultraintessuta di aspetti sapienziali richiama gli affreschi di Schifanoia. L’Egitto attraeva Borso, che aveva rapporti diplomatici e mercantili con sultani e potentati del Nord Africa. Inoltre a Ferrara era di casa Ciriaco d’Ancona (1391-1452), un umanista ed archeologo che aveva visitato l’Egitto nel 1412-14, riportando memorie e disegni, mostrati a corte. Forse il più originale approccio ai significati compressi nelle ante turiane resta quello pionieristico di Enrico Guidoni ed Angela Marino, in Cosmus pictor. Il “nuovo organo” di Ferrara: armonia, storia, e alchimia della creazione (“Storia dell’Arte” 4, 1969). —
MICAELA TORBOLI
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